| ARTICOLO DI GASTONE PUTTINI|

Stabilire come deve essere la cerca del beccaccinista è lo stesso che stabilire come si fa la corte ad una bella donna: dipende da un’infinità di cose e l’unica regola è che non c’è regola.

Tutt’al più si può dire che nella cerca del beccaccino il cane è “tirato dal naso”.

Anche chi fa la corte ad una bella donna è tirato da qualcosa (sempre che tiri ancora!)

E così come le belle donne di un tempo sono cambiate rispetto alle belle donne di oggi, anche la caccia al beccaccino di oggi è profondamente cambiata rispetto a quella di una volta.

In entrambi i casi è cambiato l’ambiente.

Ma lasciamo in disparte le belle donne altrimenti vado in confusione e concentriamoci sulla caccia al beccaccino.

Prima di tutto sono scomparse lemarcite che erano la palestra più facile, il palcoscenico su cui il cane poteva strappare l’applauso a scena aperta.

Non solo i prati marcitori non esistono praticamente più, ma se ci fossero sarebbero terreni in attualità di coltivazione dove la caccia è proibita.

Sono rimaste le risaie. Ma anche quelle hanno subìto notevoli modifiche rispetto al passato.

Incominciamo col dire che le attuali risaie sono molto, molto più grandi di una volta e vengono spianate col laser, grazie al quale si evitano i ristagni d’acqua. Inoltre il fondo della risaia è più duro per evitare lo sprofondamento delle moderne, enormi macchine mietitrebbia. Una volta ai bordi e agli angoli delle risaia, dove il trattore manovrava per girare ed invertire la rotta, si formava una permanente poltiglia in cui lo stivale affondava fino al ginocchio e dove – anche azionando le chiuse per regolare il flusso dell‘acqua – c’era sempre ristagno che faceva marcire il fango e prosperare vermetti e lombrichi di cui il beccaccino è particolarmente ghiotto.

Il cane da beccaccini sentiva l’odore di fango marcio e là si dirigeva convinto, deciso ed attento. Le altre zone venivano attraversate con la consapevolezza di chi vuole approfittare anche nell’incontro occasionale del beccaccio di rimessa, ma i riferimenti obbligati erano quelli delle zone odoranti di marciume. E non si creda che ciò facilitasse il compito del cane, perché le “zone marce” accoglievano non solo il beccaccino, ma ogni sorta di uccelli e di pasture: identificare in mezzo a quel caos olfattivo di uccelli e di pasture l’emanazione del beccaccino effettivamente presente era un’impresa eroica che solo i cani dotati di gran discernimento potevano affrontare.

Sta di fatto che in una situazione del genere, la cerca si svolgeva secondo schemi giustificati solo dal naso e dal terreno, prescindendo da qualsiasi geometria di percorso.

Oggi il beccaccino è più equamente distribuito in tutte le zone umide, proprio perché la presenza degli organismi di cui si nutre non è più così concentrata. Non c’è più l’imperiosa attrazione delle zone che odorano di marcio, ma un più diluito sentore di zone molto vaste che possono ospitare il beccaccino. Lo specialista quindi avverte se l’ambiente che ha di fronte è terreno da sgneppe o no, e si comporta di conseguenza con la dovuta concentrazione. Però davanti a lui c’è una risaia sconfinata, le cui esalazioni sono ovunque egualmente promettenti e che deve essere affrontata con ordine e raziocinio. La cerca è sempre “tirata dal naso” verso le zone olfattivamente più promettenti, che però – per la loro vastità ed omogeneità – possono ospitare il beccaccino dappertutto. Ed è un po’ la stessa situazione che si trova nei marais della Normandia, dove le zone umide si estendono a perdita d’occhio e i beccaccini sono ogni dove. La cerca quindi deve adeguarsi e trasformarsi in un intelligente compromesso tra cerca incrociata e cerca olfattivamente pilotata. A questo proposito, enorme differenza è data dall’aria. Nel marais e nelle risaie di Sardegna, dove c’è sempre aria di mare, per il gran cane tutto è più bello e più facile (…ripeto: per il gran cane!). Nelle risaie della nostra “bassa” le difficoltà aumentano enormemente, proprio perché c’è “aria pesante”, dove far bella figura è molto, molto più difficile. Ma torniamo alla cerca: ho detto che nelle sconfinate risaie – per esempio del Novarese – il cane ha la necessità di svolgere un’azione che è un compromesso fra la cerca incrociata e la cerca olfattivamente pilotata. In pratica cosa vuol dire? Vuol dire che se il cane rompe la geometria del percorso perché ha avvertito che lì dappresso c’è una zona che sa di marcio e là si dirige, non solo non è da criticare, ma è anzi da lodare. L’importante è che l’espressione di cerca segnali che la divagazione non è stata dovuta ad una vuota intemperanza, ma ad un accertamento ispirato dalla natura del terreno verso il quale si è diretto. E se – mentre sta assecondando quello stimolo olfattivo – si alza altrove un beccaccino, quello non è un trascuro, perché il cane era in tutt’altro impegno affaccendato. A questo proposito è particolarmente illuminante quanto ha scritto Franco Zurlini:

“Lo specialista mostri di spinger la cerca dove dovrebbe star la sgneppa e pazienza se ne lascia alle spalle una che stava dove non era logico che stesse: in cambio di qualche sbaglio, che un diligente generico non avrebbe compiuto, vi regalerà delle sgneppe che l’altro non avrebbe trovato neanche per caso. Comunque, intraprendenza non vuol dir disordine: in terreno omogeneo per “qualità” e a vento costante, non si giustificano fantasie perigliose e starà a chi porta la trombetta al collo valutare quando e quanto sia da apprezzare una regolare cerca incrociata e a non scambiare per intraprendenza quattro sfondoni sconsiderati.”

Grande Zurlini!.

Sta di fatto che oggi tutto si è fatto più difficile, per i cani e per i giudici, proprio perché il necessario compromesso rende più complicato vedere la differenza fra tonalità di grigio, piuttosto che tra il bianco ed il nero. Direi quindi che l’importante oggi nelle prove a beccaccini è di cercare di capire l’azione del cane, proprio perché il beccaccinista è un “personaggio” che vuole coinvolgerci nella sua azione e nelle sue motivazioni. Ed è una differenza non trascurabile rispetto agli altri tipi di prove in cui il lavoro del cane è più facilmente inquadrabile in schemi oggettivi predefiniti. A beccaccini invece tutto è molto più vago, più opinabile, variabile e soggetto ad interpretazione di chi giudica. È ovvio che con simili premesse possono scaturire valutazioni più personali, a volte magari criticabili: ma sono i rischi del mestiere, soprattutto a beccaccini. Comunque è molto meglio sbagliare per aver dato un’errata interpretazione, che giudicare con la macchina calcolatrice. Il cane modula il suo comportamento soprattutto in funzione del naso. Noi – che non abbiamo un olfatto altrettanto sensibile – dobbiamo sopperire alla nostra carenza utilizzando la vista. Ed ecco allora che chi deve giudicare dovrebbe indicare al concorrente il terreno assegnato, per quindi mettersi in condizione di avere una visione ampia di ciò che sta succedendo: bisogna cioè vedere il cane nel contesto del terreno che -se necessario – tenga conto anche delle zone adiacenti, da cui può provenire l’ispirazione che guida la cerca del beccaccinista. Ed allora è opportuno seguire il cane mantenendosi in posizione strategica, perché è meglio rinunciare alla percezione di qualche dettaglio (e magari a distanza confondere un frullino per un beccaccino) a favore di una più significativa visione d’insieme e per valutare l’intraprendenza, cioè la qualità essenziale del beccaccinista. Un cane che non ferma “la calda” del beccaccino, non fermerà neanche dove il beccaccino c’è. Il cane “giusto” però si accorge ben presto che la sgneppa non c’è più, risolve spontaneamente la ferma a vuoto e riprende la cerca con convinzione e determinazione. Ed è una delle più belle azioni che laurea il beccaccinista. E quando alla fine ci sarà la ferma valida, cioé la prestazione importante coronata da un ottimo punto, si fermi il turno per non arrischiare di offuscare il tutto. Perché, guarda caso, dove c’è un beccaccino è più probabile ce ne sia un’altro cento o duecento metri più in là….perché vuol dire che quello è un “terreno buono”, quindi adatto ad ospitare magari un’altra sgneppa. A questo proposito, ricordo quel geniaccio di Giulio Colombo che quando un beccaccinista faceva il punto, trovava sempre una buona scusa per interrompere il turno rassicurando il concorrente che lo avrebbe rivisto poi, magari con la plausibilissima scusa di vederlo nuovamente in azione ma su un altro terreno (dove poter confermare o ridimensionare la buona impressione riportata nella prima parte del turno). Tra ovviamente una personalissima interpretazione dei regolamenti che scaturiva però dalla sensibilità del cacciatore di beccaccini, che sa quanto difficile sia ottenere un bel punto su questa selvaggina proibitiva. Oltretutto, con un simile stratagemma conservava per un altro cane il possibile incontro sul prosieguo del turno interrotto (e noi tutti ben sappiamo quanto sia importante nelle prove offrire al maggior numero possibile di cani valide occasioni di incontro!). Da quanto vi ho detto, è evidente che chi giudica una prova a beccaccini non può limitarsi a valutare il cane, ma deve condurre la prova nel vero senso della parola, avvalendosi ovviamente dell’ausilio dell’accompagnatore che conosce il terreno.