ARTICOLO DI CESARE BONASEGALE
Questa volta non c’entra Macchiavelli, né quello del Principe, né quello “ex” dell’ENCI. Il “fine” è la cerca. Il “mezzo” è l’andatura. La cerca deve essere funzionale al reperimento della selvaggina, per esplorare tutto il territorio disponibile. L’andatura deve essere sufficientemente veloce da rendere accettabili i tempi d’esplorazione: una cerca troppo lenta riduce la possibilità di coprire proficuamente il territorio della caccia. Ecco perché il trotto deve essere fatto di sgambate lunghe, altrimenti con passetti corti si copre poco terreno. Il passo lungo consente di mantenere la testa mobile su di un collo morbido, tanto bello e funzionale. I passi brevi freneticamente veloci sono “costruiti”, comportano necessariamente coda ferma e collo rigido. Però il trotto lungo deve essere comunque con battute relativamente rapide, perché in caso contrario denuncia scarsa passione. Quando incominciai ad occuparmi di questa razza, i Bracchi italiani erano quasi tutti degli esasperanti polentoni, il cui intento principale era di marcare il territorio con infinite pisciate. Cacciare con loro era quasi impossibile. Infatti gli allevatori d’allora – tranne rare eccezioni – sfornavano soprattutto cani da esposizione. Fra i “delle Forre” i cani da almeno Molto Buono in prova erano forse l’un percento. Un po’ meglio i roani “dei Ronchi”. Ed infatti il rimedio più frequentemente adottato era l’incrocio col Pointer, per avere cani non tipici (morfologicamente e stilisticamente) ma quantomeno funzionali. E così era quasi scomparso il trotto, che invece è importante. E perché trotto e non galoppo? Perché il trotto è più bello, più elegante e – soprattutto – è unico, è la caratteristica distintiva della razza. Se il Bracco italiano galoppasse, sia pure di travalco, sarebbe un altro “Continentale”, un altro bracco, come i tanti Bracchi francesi che sono né carne né pesce, con un sacco di meriti ma che – quanto a personalità – sono tutt’altra cosa. Vuoi mettere l’emozione dell’andatura di un Bracco italiano?. E torniamo alla cerca, o meglio al problema della cerca. La qualità fondamentale della cerca è la versatilità:
ristretta dove la vegetazione lo richiede,
più ampia in terreni aperti,
ampissima se la scarsa densità della selvaggina rende rari gli incontri.
Mi ricordo il mio Lord a Cigliano. Pioveva a dirotto e lui copriva con grande impegno tutto il terreno disponibile, ma l’incontro mancava. Poco prima della fine del turno, di sua iniziativa passò a nuoto un fossato larghissimo e si mise a disegnare lacet all’infinito su di un’adiacente piana da “grande cerca”. Evidentemente aveva pensato che “Se le starne non sono di qui, proviamo al di là del canale!.” E infatti le incontrò e per andare a servirlo dovemmo trovare il ponte sul fossato e fare un giro interminabile. Lui ci attese immobile. Partì la coppia e Paolino Ciceri aveva gli occhi lucidi. Io più di lui. E fu il terzo CAC del Campionato italiano di lavoro. Idem il CACIT che lo laureò primo Continentale italiano Campione Internazionale: turno coraggiosissimo nella sconfinata pianura di Castel Merlino coi giudici che lo paragonavano a Mushleton. Poi l’incontro in un bosco impenetrabile e la giuria che lo verificava dall’alto di una vicina montagnetta. Dopo la conclusione uscimmo dai rovi entrambi sanguinanti. Lord era anche quello che a quaglie in un fazzoletto di campagna me ne trovò mezza dozzina una appresso all’altra. Ferma, guidata, frullo e sparo: così per sei volte. Alla fine andò al riporto, consegnandomele in mano una per una. E quella versatilità trasmise a figli, nipoti e pronipoti (leggi Carlin, Dama, Galanton, Nasta, Fagnan, Carisna, Dumà, Trebisonda, Cumenda, Sbarbà, Baldisar, Stelin, Nisciulin, Ciribin, per citare i più noti e via così fino agli attuali Bocia, Murusa ed altri). È qualità naturale quella che dà il coraggio di allargare la cerca all’infinito. È qualità naturale quella che fa cacciare per il fucile. E non è solo “collegamento”: è vera e propria versatilità. Ma è anche mestiere, è imprinting della caccia vera che va curato fin dalle prime esperienze perché il cane che cerca senza tener conto delle esigenze del fucile fa solo incazzare. Purtroppo invece oggi assistiamo alla deriva di Bracchi italiani che conoscono solo turni senza abbattimento in terreni ampissimi, che strappano meritati applausi con lacet strabilianti per ampiezza, ma che non vengono forgiati (e verificati) in condizioni dove – oltre al coraggio – ci vuole cervello ed equilibrio. Rispetto a cinquant’anni fa, si è ribaltata la situazione ed ora a volte abbiamo cani che a caccia non servono, per motivi opposti a quelli di una volta. Per contro, a caccia – quella vera – la selvaggina si trova ormai esclusivamente in terreni sporchi, in incolti, in boschi, nelle risaie, ovunque tranne che nelle aperte pianure in cui i nostri Bracchi collezionano cartellini. E purtroppo spesso i loro figli son come loro: vanno, vanno, vanno… ma dove cavolo vanno? Vanno appunto per i cavoli loro e, quando va bene, fermano selvatici a centinaia di metri, tralasciandone un sacco d’altri a portata del loro conduttore. E i cacciatori non sanno che farsene di cani del genere. E quando capitano a me, anch’io m’incazzo, m’incazzo da morire!. La soluzione è semplice ed impossibile allo stesso tempo. Semplice perché basterebbe imporre ai cani un adeguato tirocinio di caccia. Impossibile perché ormai i cani che fanno le prove stanno tutta la vita sul furgone del dresseur. Forse si potrebbe intervenire con una Società Specializzata che si dedica seriamente ad incentivare la partecipazione dei Bracchi italiani a prove in terreni di caccia vera e su selvaggina vera, anche se ciò magari non è gradito ad alcuni conduttori professionisti ed ai loro clienti.
Appunto: ho detto impossibile.